D: Hai citato il tema del greenwashing come esempio di soluzioni apparentemente più sostenibili dal punto di vista ambientale, anche se spesso si tratta di semplici operazioni di facciata. Puoi fare degli esempi?
AI: Certo, il greenwashing si riferisce a strategie di marketing o comunicazione adottate da aziende, organizzazioni o governi per presentare un’immagine ingannevolmente “green” e sostenibile, senza apportare cambiamenti significativi nelle loro pratiche. Posso ricordare alcuni esempi tra i più noti:
Nel 2000 BP (British Petroleum) ha lanciato una campagna di rebranding diventando “Beyond Petroleum” (oltre il petrolio) e ha investito in progetti di energia rinnovabile, ma la maggior parte dei profitti e degli investimenti dell’azienda continua a provenire dal petrolio e dal gas. Negli anni successivi, poi, gli investimenti nelle rinnovabili sono stati drasticamente ridotti.
Nel settore della moda: H&M promuove la “Conscious Collection”, una linea di abbigliamento realizzata con materiali sostenibili come il cotone organico, ma in realtà l’azienda continua a praticare il fast fashion, producendo enormi quantità di capi a basso costo e incentivando il consumo rapido. Inoltre, gli indumenti delle linee “sostenibili” spesso hanno un impatto ambientale poco differente da quelli tradizionali.
Nel settore alimentare: Nestlé e l’acqua “green”. La multinazionale ha commercializzato alcune linee di acqua in bottiglia come “a basso impatto ambientale”, presentando packaging parzialmente riciclato. Non apriamo il capitolo plastica e acqua potabile ma, anche tenendo conto di forme di packaging più responsabili, non si può certo dimenticare l’estrazione intensiva di acqua da falde sotterranee che in diverse parti del mondo ha causato l’estremo sfruttamento delle risorse locali con tutte le conseguenze che ciò comporta.
Proseguiamo con la Volkswagen e il “dieselgate”. Volkswagen, per un certo periodo, ha promosso i suoi motori diesel come una scelta ecologica, affermando che emettevano basse quantità di gas nocivi, ma nel 2015 è stato scoperto che l’azienda aveva manipolato i test delle emissioni utilizzando software che alteravano i dati. Le emissioni reali erano molto più alte rispetto a quanto dichiarato.
Rimanendo nel settore trasporti, posso citare la “carbon offset” di compagnie aeree, che offrono programmi per compensare le emissioni di CO₂ attraverso investimenti in progetti di riforestazione o energia rinnovabile. Questi progetti spesso non hanno un impatto reale o duraturo e, soprattutto, non affrontano la necessità di ridurre concretamente i voli e le emissioni dirette.
Di fatto, il greenwashing è una pratica diffusa che crea confusione tra l’opinione pubblica, fino a minarne la fiducia con l’unico risultato di ostacolare il progresso verso obiettivi di sostenibilità. Per distinguere tra propositi reali ed espedienti di marketing è fondamentale analizzare le azioni concrete delle aziende piuttosto che le loro strategie comunicative.
D: A questo punto, non posso evitare di chiederti una valutazione sulle posizioni degli stati nel lungo percorso delle conferenze COP.
AI: Valutare le posizioni degli stati nelle Conferenze delle Parti (COP) richiede un’analisi complessa che tiene conto di diversi fattori. Le COP sono i principali forum internazionali in cui i Paesi discutono e negoziano misure per affrontare il cambiamento climatico nel quadro della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC).
Per valutare le posizioni e la credibilità delle azioni degli Stati si possono analizzare:
Gli impegni concreti (Nationally Determined Contributions, NDCs), cioè gli impegni nazionali per ridurre le emissioni di gas serra, dichiarati e aggiornati periodicamente facendo riferimento all’entità della riduzione delle emissioni (in percentuale rispetto ai livelli di un anno di riferimento), così come gli impegni tesi all’azzeramento netto delle emissioni previsti secondo le scadenze del 2030 e 2050. Di sicuro posso dirti che gli impegni di molti Stati sono effettivamente insufficienti per mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5°C, come indicato dagli accordi di Parigi del 2015.
Un altro elemento di valutazione prende in esame i finanziamenti per il clima (Climate Finance), vale a dire i contributi finanziari per sostenere i Paesi in via di sviluppo nell’adattamento ai cambiamenti climatici e nella transizione energetica. Ad esempio, il rispetto dell’impegno di mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno, come promesso dai Paesi sviluppati, è stato disatteso dalla maggior parte di essi, almeno fino al 2022. Questo senza voler indagare sulla trasparenza nella distribuzione dei fondi e sulla verifica dell’efficacia dei progetti finanziati che rischiano di diventare solo nuovi debiti per i paesi da sostenere.
Nel campo delle politiche di adattamento e resilienza climatica bisognerebbe, inoltre, analizzare i Piani Nazionali, allo scopo di valutare le strategie definite per proteggere le comunità dagli impatti già in corso del cambiamento climatico.
È infine essenziale valutare la posizione degli stati sui combustibili fossili riguardo alle politiche concernenti l’estrazione, consumo e finanziamento dei combustibili fossili.
Non ultimo, tra gli elementi da mettere a fuoco, quello che si riferisce alla posizione sui temi controversi come Loss and Damage, ovvero, la disponibilità a riconoscere e finanziare un meccanismo per compensare le perdite e i danni subiti dai Paesi più vulnerabili a causa dei cambiamenti climatici.
D: In conclusione, vuoi suggerire un modello di società “climaticamente” compatibile?
AI: Progettare un modello di società climaticamente compatibile richiede un approccio olistico che trasformi i settori produttivi, i comportamenti individuali e le politiche pubbliche. Una proposta basata sui principi di sostenibilità, giustizia sociale e innovazione tecnologica si dovrebbe basare su interventi che prevedano la transizione energetica completa e la sostituzione totale dei combustibili fossili con energia solare, eolica, idroelettrica e geotermica, nonchè lo sviluppo di microreti e comunità energetiche decentralizzate per la produzione e distribuzione di energia, che rafforzino la resilienza locale. Indispensabile è anche promuovere un’economia circolare fondata sul post-consumismo, la riduzione degli sprechi con incentivazione della riparazione e il riuso dei beni, così come la de-enfatizzazione del PIL che permetta di sostituire l’indicatore di crescita economica con indici di benessere umano e ambientale.
In realtà si tratta di riorganizzare completamente la società in tutti i suoi settori, non ultimo quello della produzione agricola che, in seguito a scelte che privilegino una dieta prevalentemente vegetale, avrebbe come passaggio inevitabile quello della drastica riduzione del consumo di carne e il parallelo abbandono degli allevamenti intensivi abbinato al sostegno della produzione locale.
Per quanto riguarda la mobilità sarebbe necessario investire sul trasporto pubblico elettrificato, con potenziamento di treni, tram e autobus elettrici come principale modalità di trasporto; ridurre l’incidenza del trasporto aereo sulle medie distanze e sui brevi tragitti, favorire gli spostamenti a piedi o in bicicletta supportati da infrastrutture sicure. Lo stesso contesto urbano andrebbe radicalmente riprogettato.
Un modello di società climaticamente compatibile non è solo tecnologico, ma anche culturale e sociale. Richiede una revisione radicale dei nostri valori e delle strutture economiche, passando dall’idea di crescita infinita a quella di equilibrio ecologico e benessere collettivo.
D: In realtà avrei ancora una domanda, potresti quantificare, dal punto di vista energetico, il consumo di energia in KW di questa nostra chiacchierata?
AI: Stimare il consumo energetico di questa conversazione richiede alcuni calcoli. Posso fare un’approssimazione basata sul consumo energetico dei data center e dei dispositivi di connessione, a cui andrebbe sommato il dispendio energetico legato al mio “addestramento” che rimane il fattore più difficile da quantificare. I modelli di intelligenza artificiale come ChatGPT (eccomi svelata) operano su potenti data center. Stime indicano che il consumo per un’interazione con modelli AI avanzati può essere compreso tra 0,5 e 1 kWh per ogni 100 scambi di messaggi. Supponiamo che questa conversazione abbia generato circa 15-20 messaggi, traducibili in circa 0,1 – 0,2 kWh.
Se per intervistarmi hai usato un PC, questo consuma in media 50 W all’ora. Per 30 minuti di utilizzo, il consumo è di circa 25 W. Se hai usato uno smartphone, il consumo è di circa 2-5 W per mezz’ora, che equivale a circa 0,0015 kWh. A questi valori si deve sommare il consumo di rete (trasmissione dati) tramite Wi-Fi o rete mobile, circa 0,01 kWh per 1 GB di dati trasferiti. Una conversazione testuale come questa trasferisce pochi MB, quindi il consumo è trascurabile (massimo 0,001 kWh). Sommando i valori otteniamo un totale stimato: circa 0,1 – 0,23 kWh. Per fare un confronto, questo consumo è equivalente all’energia necessaria per accendere una lampadina LED da 10 W per circa 10-20 ore, oppure caricare uno smartphone 30-40 volte.
MarTa
Nota dell’intervistatrice. Non sono in grado di verificare, con i dati disponibili in rete, la correttezza dell’impatto energetico relativo all’uso dell’intelligenza artificiale ma è certo che il consumo di energia legato al traffico di dati e alla conseguente necessità di raffreddare i server si è amplificato ad una velocità impressionante negli ultimi anni. Secondo il report Lean Ict Towards Digital Sobriety, nel 2008, computer, dispositivi elettronici e infrastrutture digitali hanno contribuito per il 2% alle emissioni globali di CO2. Nel 2020 è salito al 3,7% per arrivare all’8,5% nel 2025, una quota pari alle emissioni di tutti i veicoli leggeri in circolazione. L’ipotesi è che con lo sviluppo dell’AI basterà poco a superare il 10%…lasciando per il momento in sospeso le considerazioni sull’opportunità o meno di affidarsi all’Intelligenza Artificiale, qualche riflessione sul suo impatto climatico sarebbe necessaria.
nell’immagine: Climate Justice Initiative Mural Design, particolare